Covid-19 e le spire del capitale

[Quello che segue è un estratto del saggio di Rob Wallace, Alex Liebman, Luis Fernando Chaves e Rodrick WallaceCovid-19 e le spire del capitale“, pubblicato nella sua versione integrale – corredata da una vasta bibliografia – dalla Monthly Review Online, e tradotta in italiano dal Pungolo Rosso.
Il saggio ricostruisce l’insieme dei legami fra l’emergere e l’espandersi delle zoonosi, come il Covid-19, la distruzione degli habitat causata dalla produzione capitalistica (ed in particolare quella agroindustriale) e l’estendersi delle reti globali dei viaggi e del commercio.]

L’infiltrazione

Un certo numero di luminari dell’epidemiologia ambientale (alcuni parzialmente finanziati da Colgate-Palmolive e Johnson&Johnson, aziende che, per cosi’ dire, maneggiano la lama insanguinata della deforestazione guidata dall’agribusiness) hanno elaborato una mappa globale che mostra le epidemie passate a partire dal 1940 e indica i luoghi in cui probabilmente affioreranno nuovi agenti patogeni.
Più è caldo il colore sulla mappa e più è probabile che in quei luoghi emerga un nuovo patogeno. Rovente in Cina, India, Indonesia e in parte dell’America Latina e dell’Africa, questa mappa insiste erroneamente su una geografia priva di relazioni, assoluta, e omette un punto cruciale.
Focalizzandosi sulle sole aree in cui scoppiano le epidemie, si perdono di vista i nessi tra gli attori economici globali che, dal canto loro, delimitano il campo d’analisi delle scienze epidemiologiche.
Da un lato gli interessi capitalistici, che promuovono cambiamenti nell’uso del suolo, connessi ora allo sviluppo economico complessivo ora a determinati orientamenti produttivi, e dall’altro il fatto che le malattie si manifestino nelle zone sotto-sviluppate del globo, premiano gli sforzi di chi scarica la responsabilità delle epidemie sulle popolazioni indigene e relative pratiche culturali, cosiddette “sporche”.
Si è infatti puntato il dito sul trattamento di carni di animali selvatici e sulle sepolture domestiche per spiegare l’emergere di nuovi patogeni.

Ma se si seguono i tracciati rivelati dalla geografia relazionale, allora New York, Londra e Hong Kong, vere fonti del capitale globale, si trasformano improvvisamente nei tre peggiori hotspot del mondo.
Nel frattempo, le zone-focolaio sono rimaste prive anche della loro organizzazione politica tradizionale.
Lo scambio ecologico ineguale, che scarica sul Sud del mondo gli effetti più dannosi dall’agricoltura industriale, è passato dal mero saccheggio di risorse per mano di un imperialismo a guida statale a nuove articolazioni dell’oppressione in termini sia spaziali e che commerciali.
L’agroindustria sta infatti dando alla sua azione di estrazione di risorse la forma di reti discontinue che investono territori di dimensioni diverse.
Per esempio, la catena delle “repubbliche della soia”, dipendenti dalle multinazionali, lega ora Bolivia, Paraguay, Argentina e Brasile.
Questa nuova geografia viene disegnata dai cambiamenti nella gestione delle aziende, da capitalizzazioni, subappalti, sostituzioni nelle catene di approvvigionamento, dai leasing e dall’accorpamento dei terreni su scala internazionale.
I “paesi-materia prima” stanno producendo nuove epidemie nella stessa misura in cui vengono costretti entro cangianti confini politici ed ecologici.

Ad esempio, malgrado il complessivo spostamento della popolazione da aree destinate all’agricoltura commerciale agli slums urbani, spostamento tutt’ora in corso a livello globale, l’antitesi città/campagna alla base del dibattito sulle origini delle malattie non considera la quota di lavoratori destinata alle aree rurali, ne’ la rapida crescita di “città rurali” nei periurbani desakotas (villaggi urbani), o nelle zwischenstadt (città di mezzo).

Mike Davis e altri hanno mostrato come questi paesaggi urbani in espansione fungano sia da mercati locali che da hub regionali, funzionali al passaggio di beni destinati al mercato globale (36). Certe regioni sono persino diventate “post-agricole”.
Ne consegue che le dinamiche patologiche proprie delle foreste, culla degli agenti patogeni, non sono più confinate al solo hinterland.
Il fatto epidemiologico diviene relazionale e drammaticamente tangibile in termini spazio-temporali. Un virus SARS uscito da una manciata di giorni da una caverna di pipistrelli può improvvisamente riversarsi su degli uomini in una grande città.

Gli ecosistemi, che controllavano in parte i virus “selvaggi” grazie alla complessità che e’ propria della foresta tropicale, vengono drasticamente semplificati dalla deforestazione di marca capitalistica.
A chiudere il cerchio, all’altra estremità della crescita peri-urbana vi sono i deficit di spesa nella sanità pubblica e nei servizi di tutele igienico-ambientale.
Se molti patogeni presenti in ambienti selvaggi si estinguono insieme con le specie ospiti, un sotto-gruppo di infezioni un tempo destinate ad esaurirsi piuttosto rapidamente nella foresta (se non altro per l’irregolare tasso di incontro con le loro specie ospiti) ora si stanno propagando nelle città attraverso popolazioni umane rese ancor più vulnerabili dalle politiche di austerità e dalla corruzione.
Anche in presenza di vaccini efficaci, le epidemie risultanti sono caratterizzate da maggior estensione, durata, impeto. Quelli che erano salti di specie circoscritti a livello locale sono ora diventate epidemie che viaggiano sulle reti globali dei viaggi e del commercio.

A causa di questo effetto di parallasse – con un cambiamento del solo contesto ambientale – vecchi “modelli” come Ebola, Zika, malaria e febbre gialla, relativamente poco mutevoli, si sono tutti bruscamente trasformati in minacce regionali: si è d’un tratto passati dal contagio degli abitanti dei villaggi remoti ad epidemie che colpiscono migliaia di persone nelle capitali.
Nel senso ecologico inverso, subiscono contraccolpi anche gli animali selvatici, malgrado siano da sempre serbatoi di malattie.
Le scimmie native del Nuovo Mondo si possono ammalare di febbre gialla di tipo selvaggio, a cui sono state esposte per almeno un centinaio di anni; ma per via della frammentazione delle popolazioni causata dalla deforestazione ora stanno perdendo l’immunità di gregge e muoiono a centinaia di migliaia.

L’espansione

Anche solo per la sua espansione globale, l’agroindustria funge sia da propellente che da ponte per patogeni di varia origine, permettendo loro di migrare dai bacini più remoti ai centri di popolazione più internazionalizzati.
È qui, come gia’ lungo il percorso, che i nuovi agenti patogeni si infiltrano nelle “roccaforti” dell’agricoltura.
Tanto più sono lunghe le catene di approvvigionamento e maggiore l’estensione della deforestazione, quanto più sono variegati (ed esotici) i patogeni capaci di zoonosi che entrano nella catena alimentare.
Tra i patogeni emersi o riemersi di recente – patogeni di origine alimentare affiorati in contesti di allevamenti intensivo, i quali provengono, in sostanza, dall’ambiente antropogenico – vi sono la peste suina africana, il Campylobacter, il Cryptosporidium, la Ciclospora, l’Ebola Reston, l’E. Coli O157: H7, afta epizootica, epatite E, Listeria, Virus Nipah, febbre Q, Salmonella, Vibrio, Yersinia e una varietà di nuove varianti di influenza, tra cui H1N1 (2009), H1N2v, H3N2v, H5N1, H5N2, H5Nx, H6N1, H7N1, H7N3, H7N7, H7N9 e H9N2 (43).

Seppur involontariamente l’intera linea di produzione è organizzata attorno a pratiche che accelerano l’evoluzione della virulenza patogena e la successiva trasmissione (44).
L’aumento di monocolture genetiche – animali e piante con genomi pressoché identici – rimuove le barriere immunitarie che in popolazioni più eterogenee rallenterebbero la trasmissione.
I patogeni possono ora lavorarsi rapidamente, in termini evolutivi, i genotipi immuni di ospiti ordinari.
Nel contempo, le condizioni di affollamento del bestiame deprimono la risposta immunitaria (46). Maggiori dimensioni e densità nelle popolazioni di animali da allevamento favoriscono la trasmissione e la frequente ricorrenza delle infezioni.
L’elevato volume di attività tipico della produzione industriale fornisce costantemente nuovi quantitativi di animali vulnerabili nelle stalle, nelle fattorie e a livello regionale, rimuovendo così il limite all’evoluzione della mortalità dei patogeni.
Alloggiare molti animali insieme favorisce i ceppi virali che possono attecchire meglio. È inoltre probabile che ridurre l’età della macellazione – fino a sei settimane nei polli – selezioni agenti patogeni in grado di sopravvivere a sistemi immunitari più robusti .
La maggior estensione geografica del commercio e dell’esportazione di animali vivi ha aumentato la varietà dei segmenti genomici scambiati dai relativi patogeni, accrescendo la velocità con cui gli agenti della malattia esplorano le loro possibilità evolutive.

Tuttavia, mentre l’evoluzione dei patogeni si impenna, gli interventi [statali, N.d.T.] sono pochi o nulli, questo anche a seguito di richieste da parte dell’industria, a meno che non si tratti di salvare i margini fiscali trimestrali dall’improvviso scoppio di un focolaio.
Vi e’ una tendenza verso un numero inferiore di ispezioni governative nelle aziende agricole e negli impianti di trasformazione, e verso una legislazione contraria alla sorveglianza del governo, alle denunce degli attivisti ed anche, addirittura, ai resoconti da parte dei media relative a specifici focolai mortali. Nonostante le recenti vittorie in tribunale contro l’inquinamento prodotto da pesticidi e allevamenti di suini, il comando degli interessi privati sulla produzione rimane interamente focalizzato sul profitto.
I conseguenti danni causati dalle epidemie sono esternalizzati sul bestiame, le colture, la fauna selvatica, i lavoratori, i governi locali e nazionali, i sistemi sanitari pubblici e gli agrosistemi alternativi presenti all’estero, facendo delle esigenze economiche una questione di priorità nazionale. Negli Stati Uniti, il CDC riferisce che i focolai epidemici di origine alimentare si stanno espandendo sia nel numero degli stati colpiti che in quello delle persone infettate.

Insomma, l’alienazione del capitale sta creando il brodo di coltura ideale per gli agenti patogeni. Mentre l’interesse pubblico viene lasciato fuori dalla porta della fattoria e della fabbrica alimentare, i patogeni infiltrano quel tanto di sicurezza biologica che l’industria è disposta a pagare per poi presentarla al pubblico.
La produzione giornaliera rappresenta un rischio morale lucroso, che sta mangiando vivo il nostro patrimonio condiviso di tutele sanitarie ed ambientali.